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Stavo morendo in silenzio e al Milan non importava niente. Non posso essere costretto a rinnovarlo, Tijjani Reijnders ha annullato il rinnovo del suo contratto con il Milan in anticipo oggi a causa di…

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Stavo morendo in silenzio e al Milan non importava niente. Non posso essere costretto a rinnovarlo. Tijjani Reijnders ha annullato il rinnovo del suo contratto con il Milan in anticipo oggi a causa di un malessere che si portava dentro da mesi, forse da quando aveva capito che il suo sogno di giocare in rossonero si era trasformato in una gabbia dorata.

Era arrivato a Milano con l’entusiasmo di un bambino, con il desiderio di imporsi in un grande club, di lasciare il segno in una squadra che aveva scritto la storia del calcio europeo. Il progetto gli era stato venduto come ambizioso, come una sfida esaltante, ma col tempo aveva capito che qualcosa non funzionava. La squadra arrancava, gli equilibri interni si erano incrinati e la pressione era diventata insostenibile.

All’inizio aveva provato a ignorare le voci, a concentrarsi solo sul campo, a lavorare sodo per migliorare, per essere quel giocatore che tutti si aspettavano diventasse. Ma non bastava. Sentiva su di sé il peso delle aspettative, il giudizio della stampa, dei tifosi, di un ambiente che non perdona. Ogni partita era un esame, ogni errore un verdetto. E lui, che aveva sempre giocato con leggerezza e gioia, si sentiva sempre più oppresso.

Le notti insonni erano diventate la norma. Si rigirava nel letto pensando a cosa fosse andato storto, a cosa potesse fare per cambiare la situazione. Ma la risposta non arrivava mai. Durante gli allenamenti si sforzava di sorridere, di mostrarsi sereno, di non far trasparire il disagio che lo stava consumando. Ma dentro di sé, sentiva di stare morendo.

I primi segnali li aveva avvertiti nei piccoli dettagli. La stanchezza che non passava, la mancanza di energia, il fastidio per le cose che un tempo lo entusiasmavano. Poi erano arrivati gli attacchi di ansia prima delle partite, il senso di soffocamento quando entrava in campo, il terrore di sbagliare. Non era più lo stesso giocatore, non era più lo stesso uomo.

Ne aveva parlato con alcuni compagni, ma le risposte erano sempre le stesse. “Fa parte del gioco, devi abituarti”, gli dicevano. Oppure: “Non pensarci, passa tutto”. Ma non passava. Anzi, peggiorava. Si era rivolto anche allo staff del club, cercando aiuto, ma aveva trovato solo porte chiuse. “Abbiamo bisogno di te, devi restare concentrato”, gli avevano detto. “Sei un professionista, devi reggere la pressione”.

E così aveva continuato a stringere i denti, a lottare con i propri demoni, sperando che prima o poi le cose migliorassero. Ma non era successo. Il malessere era diventato troppo grande, il peso troppo insostenibile. E quando il Milan gli aveva proposto il rinnovo, aveva capito che non poteva più andare avanti.

Non era una questione di soldi, né di ambizioni. Era una questione di sopravvivenza. Non poteva firmare un contratto che lo avrebbe legato a una realtà in cui non riusciva più a respirare. Non poteva ingannare se stesso, non poteva illudersi che tutto sarebbe andato a posto solo perché qualcuno gli diceva che doveva essere così.

E così aveva preso la decisione più difficile della sua carriera. Aveva comunicato al club che non avrebbe rinnovato, che voleva andarsene, che aveva bisogno di ritrovare se stesso. La reazione era stata gelida. Delusione, rabbia, incredulità. Nessuno sembrava capire il suo dolore, nessuno sembrava interessato al suo stato d’animo. L’unica cosa che contava era il contratto, il mercato, il valore economico di un giocatore che non voleva più restare.

I tifosi lo avevano attaccato sui social, accusandolo di tradimento, di essere un mercenario, di non rispettare la maglia. Ma nessuno sapeva cosa stava passando, nessuno sapeva cosa significasse sentirsi intrappolati in un incubo dal quale non si riesce a uscire.

Ora si trovava nella sua casa di Milano, seduto sul divano, guardando fuori dalla finestra la pioggia che cadeva lenta. Sentiva un misto di paura e sollievo. Paura per il futuro, per le conseguenze della sua scelta. Sollievo perché, per la prima volta dopo tanto tempo, aveva fatto qualcosa per sé stesso. Aveva detto basta. Aveva scelto di vivere.

Non sapeva ancora dove sarebbe andato, quale sarebbe stata la sua prossima squadra. Non gli importava. Tutto quello che contava era aver ritrovato un po’ di pace, aver smesso di fingere. Perché nessun contratto, nessuna maglia, nessuna squadra valeva la sua salute mentale. E su questo non avrebbe mai più fatto compromessi.

 

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